di Aurelio Mancuso

Di verdi valli, alte vette, ruscelli impetuosi, decine di castelli e roccaforti, stambecchi camosci e marmotte, piste da sci e sentieri fiabeschi vive la fama  della Valle d’Aosta. La più piccola e meno popolata regione d’Italia, incastonata tra il Piemonte, la Svizzera e la Francia, è una terra ricca di tradizioni e culture linguistiche minoritarie e storicamente importanti. Su questo ritratto generazioni di politici valdostani hanno contato per poter, nel silenzio generalizzato, gestire una vera e propria miniera d’oro, popolata da appena 127 mila abitanti, che grazie al turismo negli anni fortunati possono arrivare a tre volte tanto. La Vallée, come tanti la chiamano per ricordare il bilinguismo formale instaurato dal dopo guerra, in molti casi utilizzato nel comparto pubblico per selezionare una sicura riserva di consenso, discriminando chi quel francese non lo conosceva perché proveniente da altre regioni italiane, ha avuto tutti i privilegi discendenti dallo Statuto Speciale incardinato nella Costituzione Italiana. continua a leggereDalla fine degli anni ’70 con la quasi completa applicazione delle disposizioni statutarie (meno la zona franca) la regione ha un regime di riparto fiscale dei nove decimi, nella sostanza quasi tutte le tasse pagate allo Stato ritornano nel bilancio regionale. Da quel momento la gestione di centinaia di miliardi del vecchio cogno che improvvisamente si riversarono su questa terra, abituata nella sua storia a lunghi secoli di estrema povertà e isolamento, hanno provocato una tale sequela di scandali, arresti, crac finanziari, compromissioni tra politica e affari, da far impallidire le future tangentopoli italiane. La Valle è per conformazione geografica e, quindi, pure per tradizione politica e sociale un micro cosmo, rinchiuso su se stesso, crocevia, come strombazza la agiografia del potere, d’Europa, che grazie ai suoi passi montani e recenti tunnel stradali, permettono l’attraversamento di persone e merci. La verità è che il tratto chiuso, per alcuni versi orgoglioso e pure asciutto dei valdostani non è mutato, l’apertura culturale si è limitata allo scambio millenario con le popolazioni limitrofe francofone e piemontesi. L’italianizzazione forzata, iniziata già dai Savoia all’indomani dell’unità d’Italia è stata perseguita dal fascismo, che impose il cambiamento di tutta la toponomastica locale, e l’immigrazione forzata di veneti, braccia indispensabili a far funzionare la Nazionale Cogne, acciaieria speciale fiore all’occhiello del regime, che serviva per buona parte alla produzione bellica. La successiva ondata dei calabresi avvenuta per la costruzione dei tunnel ha completamente reso vane poetiche di re francesizzazione. Medaglia d’Oro della Resistenza, qui davvero c’erano i partigiani fin dagli albori del movimento di liberazione, spinti da una parte dalla volontà di abbattere la dittatura e dall’altra di rendere libera la propria terra dall’usurpatore italiano, la Petite Patrie ha ottenuto ampie autonomie sulla carta, via via conquistate grazie soprattutto all’impegno del PCI che a Roma è stato il partito più attento a questa regione. D’altronde Ugo Pecchioli fu capo partigiano nelle zone a cavallo tra Cogne e il Piemonte, molti altri dirigenti conoscevano molto bene questi luoghi, dove il partito fino ai ’70 governò per molti anni in tanti Comuni, in particolare Aosta, insieme all’Union Valdotaine, movimento cardine, che sulla retorica autonomista e semi separatista ha fondato la sua fortuna. L’UV negli ultimi trent’anni spadroneggia indisturbata, Augusto Rollandin, detto l’empereur, suo presidente della Regione, è la figura politica che dal 1983 a oggi su cui sono ruotate tutte le vicende politiche, giudiziarie, morali della Regione. La casta, da queste parti, si è potuta permettere di tutto, dalle condanne definitive per abuso d’ufficio a quelle per favoreggiamento d’appalti, dalle inchieste sui contributi in ambito edilizio e dell’allevamento alla compravendita di voti. Alla fine l’elettorato premia politici, che come Rollandin, possono contare anche su una stampa locale generalmente genuflessa, macinano consensi elettorali stratosferici, governano con il piglio consolare che ben conosce e tiene conto degli appetiti della sua base. Le sinistre, che un grande ruolo hanno svolto nella rinascita del dopo guerra, che hanno anche saputo coniugare autonomismo con progressismo, ormai sono pallide comparse, in alcuni cicli politici anche complici, e oggi relegate all’inconsistenza. D’altronde il fiume di denaro che ha inondato questa piccola terra, ha sconvolto tutto, reso influenzabili i circa 90mila cittadini che hanno diritto al voto, e una porzione di essi partecipa attivamente a mantenere un regime che nulla ha da invidiare a modelli dell’Est Europa. Questa bella Valle d’Aosta dorme pascente nel suo limbo, incurante, anche se lambita, della crisi, senza, dopo i tagli inferti dagli ultimi governi nazionali, più poter contare sui buoni di benzina che permettevano ai suoi abitanti di pagare un’abbondante porzione di benzina a meno della metà del prezzo di listino. Molti privilegi e fonti di finanziamento si sono prosciugati, ma per ora il sistema Union Valdotaine, che ha pure subito diversi scismi, inossidabile guarda con fiducia al futuro. L’indubbia devastazione edilizia che ha prodotto mostri come Pila o Cervinia, la sciatteria e l’incapacità di operare nell’industria turistica con la sensibilità almeno simile ai trentini, lo sperpero dei soldi pubblici per costruire improbabili grandi opere, rende questo paradigmatico villaggio di Asterix, uno struggente esempio di quanto la chiusura in se stessi, porti all’ignavia. Il patois (la vera lingua degli autoctoni che sono circa il 50% della popolazione) è ancora un ottimo collante sociale e culturale, che si confronta con l’italiano, il calabrese, l’arabo, e con il francese, determina una pax sociale talmente soffocante da stordire i più. E se i nati in Valle, tutti, si emozionano all’ascolto di Montagne Valdotaines, l’inno ufficiale di questa regione-stato, una ragione c’è; da qualche parte nascosta negli animi la consapevolezza di poter esser migliori ancora alberga, ma per ora, da tanti decenni, non emerge.

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