Settimanale gli Altri venerdì 16 settembre 2011

Aurelio Mancuso

Se di un colpo i quattro milioni e mezzo di stranieri regolari e i circa settecentomila senza permesso di soggiorno sparissero dal nostro Paese cosa accadrebbe? Se lo domanda, “Cose dell’altro mondo” film di Francesco Patierno presentato fuori concorso al Festival di Venezia. Un’intuizione straordinaria perché immediatamente fa comprendere che il disastro sociale sarebbe assicurato. Per esempio, partendo dall’esercito delle cosiddette “badanti” o anche collaboratrici domestiche si raggiunge comodamente la cifra di due milioni di addette, tra cui quasi la metà in nero. Cosa dire poi, dell’esercito d’infermieri, assistenti sanitari, operatori socio sanitari che supera abbondantemente le ventimila unità tra ospedali, case di cura, servizi domiciliari, ecc.? Settore per settore, dall’edilizia ai servizi, dalla piccola e media impresa al commercio, i cittadini non comunitari sono una realtà lavorativa, quindi, economica indispensabile. Seppur con incertezza, sceneggiatura non convincente, narrazione noiosa e a tratti fastidiosamente misogina e spiccia, il film di Patierno è una felice intuizione che si distacca dal dolore e dalla drammaticità dello straordinario “Terraferma”, di Emanuele Crialese giustamente premiato a Venezia, che coniuga la vita difficile degli isolani e lo sbarco dei migranti. Così come è ben diverso da “Là-bas” di Guido Lombardi, che si è aggiudicato il Leone del futuro, viaggio intenso nella comunità africane al sud, tra speranza, morte, reinterpretazione della propria identità. Patierno, concentra la sua attenzione su un evento semplice e profetico. L’assenza, la repentina scomparsa dei migranti dalle fabbriche, dalle case, dai negozi, provoca il corto circuito, che non produce cambiamento nella mentalità gretta ed egoista degli italiani, ma certo li mette davanti a una concreta situazione: il loro odio è ingiustificabile e disastroso. Scomparire, non farsi più trovare, mettere in ginocchio la già devastata economia italiana, come ci racconta Patierno, non sarà sufficiente, ma è dirompente, molto di più (ingiustamente) delle belle opere cinematografiche di Crialese e di Lombardi, che puntano tutto sull’emozione dell’ingiustizia, della soggettività violentata e annullata, del viaggio disperato per l’Italia o dentro l’Italia disperata. Colpisce quest’intensa voglia del cinema italiano di raccontare l’immigrazione, finalmente di rendere giustizia e rappresentazione a chi se va bene è concessa la cronaca nera o gli insulti leghisti. In queste tre pellicole si evince la necessità di raccontare ciò che è, senza eccessive concessioni alle esagerazioni o alle sponde vittimistiche, e ciò che per surreale esigenza potrebbe accadere. La presenza dei migranti non è sradicabile, nonostante i proclami politici, i cori razzisti, le piccole e grandi violenze nelle metropoli e nei borghi dell’italico suolo. Il tema non risolto dalle opere è la paura, quella paura ancestrale dell’invasione, della regressione dei propri privilegi, delle proprie famiglie e deformanti purezze di quartiere piuttosto che di fantasiose padanie. In assenza della politica, come spesso accade nel miglior cinema italiano, arriva la poesia, le immagini rallentate, la cruda cronaca e la buffa allegoria dei logotipi, senza bisogno di urlare proclami politici, semplicemente soffermandosi e pennellando sensazioni e sapori che tutte e tutti facciamo finta di non conoscere. I migranti sono fra di noi, portatori di speranze, cogenti delusioni, rabbia; di reazioni scomposte nei loro confronti e d’incapacità di liberazione collettiva da parte loro, anche perché troppe volte preda di forme auto organizzate di difesa, che in alcuni casi sono vere e proprie reti mafiose. Come dice Lombardi, rispetto alla strage di Casal Volturno del 2008 “Con il suo contenuto d’inaudita e incomprensibile ferocia, la strage è diventata per me l’estrema e paradossale rappresentazione del modo in cui noi occidentali concepiamo gli immigrati: senza distinguerli l’uno dall’altro, negando loro quell’individualità che è alla base del concetto di persona”. Infatti, quando 5 milioni di individui, in un Paese che ne conta sessanta, sono tutti uguali, indistinti, colpevoli e meritevoli delle peggiori angherie e delle migliori prestazioni di cura, si precipita nella negazione, che porta dritti alla incertezza emotiva. Le migranti e i migranti italiani, che siano provenienti dai loro paesi, che siano nati in Italia, che siano di prima, seconda, terza generazione, condividono stigma sociale che al meglio porta a un’indifferenza diffusa degli italiani rispetto alle loro concrete condizioni di vita, assai preoccupati che la loro presenza sia conchiusa dentro le ore, giornate lavoro, per poi sparire dalla loro vista. Una delle scene più ciniche di “Cose dell’altro mondo” c’è da citare quella di una bambina preoccupata non tanto dalla scomparsa della compagna di banco, ma del coniglio che le era stato affidato dalla maestra.

Andare, quindi, al cinema e vedere tutte e tre le pellicole, oltre a essere un buon modo per riappropriarsi del nostro tempo di qualità, è un dovere civico, perché si sostiene quel cinema italiano, pur in alcuni tratti incerto e confuso, che tenta di rendere onore alla realtà. Senza occuparsi se si tratti di neo-neo realismo, i registi ci sbattono in faccia la realtà, e non scadono nel buonismo,che essendo l’altra faccia della discriminazione e del razzismo, tanti danni ha prodotto dentro le sinistre intellettuali italiane. Come sempre, (e queste pellicole lo fanno capire benissimo) il conflitto intimo e il conflitto sociale esistono, sono l’effetto di barbarie politiche e di disastri legislativi e amministrativi, ma non tutto si può liquidare con sufficienza e con i richiami alla multiculturalità e all’accoglienza. Italiani, campani, veneti, siciliani che si odiano tra di loro, per tutte le ragioni che sappiamo, sono uniti dalla paura dei migranti perché la loro presenza esalta tutti i disastri di uno Stato incapace di organizzare, per esempio, gli strumenti strutturali necessari affinché l’abbandono di migliaia di persone nelle catapecchie ai margini delle periferie sia debellato. A Lampedusa gli immigrati sbarcati sono accolti dalla Protezione Civile, dalle forze dell’ordine, poi per passaggi successivi riempiono i pullman verso i campi della raccolta dei pomodori, clandestini, ricattati e sfruttati dalle mafie, sporchi per assenza di abitazioni umanamente compatibili, e però allo stesso tempo frusciano nei corridoi nei nostri nosocomi, puliscono e accudiscono gli anziani, condividono i banchi di scuola dei nostri figli. Troppa complessità fa girare la testa, spinge ad allargare le braccia lasciando libero sfogo alla generalizzazione. Eppure il Paese, in qualche modo, non si sa bene perché, regge, non ha per ora avuto esplosioni sociali come in altri stati europei ben più abituati alle migrazioni. Quell’arte di arrangiarsi su cui si continua a confidare, a destra come a sinistra, nell’illusione che a un certo punto, non avverrà una sparizione di massa, ma perlomeno il flusso s’interromperà. Che grazie ai disarmanti appelli a far più figli per contrastare la lenta morte della razza italiana (gli antropologi e i sociologi ormai sono costretti a ridere a crepapelle), tutto in fondo rimarrà uguale. Sarà necessario un nuovo e corposo film, che parli di futuro, forse risveglierà il senso della realtà al popolo e alla politica italiani.


Share