di Aurelio Mancuso

Noi maschi siamo gli assassini che una volta ogni tre giorni nel nostro Paese ammazzano una donna, nella maggioranza dei casi una moglie, una fidanzata, un’ex. Solo il 10% degli uomini italiani che sono sposati o convivono con una donna, cucina e lava i piatti, il 20% aiuta nelle faccende domestiche. Noi uomini abbiamo plasmato per millenni società a nostra immagine e somiglianza, riducendo in schiavitù fisica e intellettuale miliardi di donne. Ci siamo glorificati nel scegliere logotipi femminili che confermassero la nostra benevolenza e superiorità: solo donne pure assurgono agli altari di tutte le religioni, solo le mansuete e le acquiescenti sono state per millenni tollerate nei luoghi del potere.continua a leggere In minime porzioni siamo dovuti arretrare, e nell’ultimo secolo, subire la rivolta delle donne, che plasticamente ha eroso spazi, cambiato regole e abitudini legali, sessuali, lavorative. Nessun uomo, per quanto democratico, sostenitore di raccolte di firme contro la violenza sulle donne, intende cedere pacificamente il potere, per questo l’appello di Se non ora quando sul femminicidio, ha raccolto così tante adesioni maschili. Io stesso l’ho firmato perché è necessario non sottrarsi, ma un’assunzione diretta di responsabilità è assai più impegnativa. Se limitiamo il tema agli omicidi e alle violenze fisiche contro le donne, è facile aderire, condannare, testimoniare la propria distanza. Tanto si parla di altri, che sono cattivi, delinquenti, che odiano le donne perché attanagliati dalla cultura antica del possesso e del dominio sul corpo femminile. Insomma recitata la preghiera, tutti assolti! Invece questa scorciatoia del noi e del loro è un inganno, cui nemmeno le più accorte femministe sembrano accorgersi. Non esistono distinguo tra gli uomini rispetto all’esclusione della maggioranza delle persone alla reale gestione del potere, dell’organizzazione sociale, del mutamento della concreta strutturazione della società. Se la violenza sulle donne si riduce alla spaventosa cifra di 777 donne (ufficialmente) ammazzate dagli uomini dal 2005 al 2011, si stravolge il dibattito e si aggira il necessario conflitto che invece è determinante per mettere profondamente in discussione, non la violenza fisica che è solo l’azione terminale, ma una vasta, radicata, profonda cultura. Noi uomini, indifferentemente dal nostro orientamento sessuale (per favore anche le donne non cadano nel pregiudizio positivo della sensibilità omosessuale), siamo antropologicamente nemici dell’autonomia e delle libertà delle donne. Possiamo ridere, esser democratici, neo femministi, compagni devoti, non per questo rinunciamo al potere sostanziale del governare sentimenti, famiglie, istituzioni, finanza. Solo quando siamo obbligati, allora forse cominciamo a fare qualche passo indietro, a riflettere, altrimenti la nostra plurimillenaria abitudine al comando, del prenderci il piacere come e quando ci pare, hanno il sopravvento.  Tutto questo fiorire, purtroppo anche da parte di donne, di elogi per il sindaco, che bontà sua, forma una giunta paritaria, di un leader nazionale che “promuove” donne in politica, di un amministratore delegato che sceglie un team di donne manager, è una pericolosissima arma di distrazione di massa. La rivoluzione dei movimenti delle donne che ha attraversato tutto il mondo e l’ha cambiato negli ultimi decenni, si è fermata, quindi, davanti alla riprovazione maschile nei confronti degli stupri e della scarsa promozione nei posti del potere? Fino a pochi decenni fa il marito poteva picchiare la moglie perché lui era il capo, così come lo stupro era un delitto contro il pudore, ma le donne si possono accontentare ora che gli uomini siano solidali? Noi uomini ci adageremo comodamente sugli appelli contro gli altri uomini, smettendo di cambiare, impettiti dalla nostra amicizia con le donne, non ponendoci domande vere sulla nostra non violenza, che alla fine dei conti è complicità. Parlare degli altri, addossare responsabilità al di fuori del proprio corpo e per estensione segnare con le nostre frivole concezioni il territorio circostante, è il modo più consolatorio per conservare il pensiero di essere al centro dell’attenzione, di continuare a essere indispensabili. Per tutte queste ragioni il termine “femminicidio” è così amato dai maschi progressisti che riversano, per calcolo e indolenza, solo sui “cattivi” del genere la colpa.  La responsabilità penale è sempre personale, ma il maschilismo è una patologia politica e culturale di cui è affetto tutto il genere maschile. Spesso si assistono a scene da far west quando lo stupratore straniero è catturato e portato in Questura. Orde di maschi nostrani lo assediano per poterlo linciare. Quante mogli, fidanzate, sorelle saranno oggetto di angherie da parte di questi onesti uomini? Non può accadere che un esterno abusi delle nostre donne, perché è di nostra pertinenza. Infine, per noi uomini è così commovente il vittimismo delle donne, da sollecitare il richiamo della nostra infanzia contornata da fragilità e tenerezza. Le nostre madri non devono piangere, non possono essere ferite, perché presto devono tornare a rassicurarci ad accudirci. Noi uomini dobbiamo, invece,  dobbiamo interrogarci, senza che nemmeno una sola donna si renda disponibile a costruirci alibi, facili assoluzioni, solidarietà nefaste. Quando noi uomini sapremo proporre autonomamente appelli rivolti a noi stessi, che aprano serie riflessioni e conseguenti azioni sul potere, allora forse le donne potrebbero cominciare a fidarsi, almeno un pochino.

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