Settimanale gli Altri venerdì 15 aprile 2011 di Aurelio Mancuso

Abbarbicati alle nostre piccole certezze della casa, dell’auto, del nostro giro di amicizie e conoscenze, dei nostri abituali aperitivi o cene, ci consumiamo sempre più nel nostro disagio patologico che ci riduce a individui chiusi nel nostro rifugio terreno. Non c’è nulla da fare, il grande egoismo colpisce tutte e tutti noi, anche quando lo respingiamo, lo avversiamo pubblicamente e sociologicamente. Il tempo è questo, senza la via di fuga di consolatori orizzonti progressivi. L’inquietudine del secolo che si è affacciato da poco più di un decennio, ricorda in chiave moderna il conflitto antico della difesa dei confini territoriali e intimi. Non c’è uno spazio da condividere e migliorare, c’è un confine da limitare e difendere. I gerani sui balconi delle villette di Magenta piuttosto che di Fiesole sono la nostra fanteria, che avverte l’altro della nostra fatua potenza di tracciare un solco. I barconi che attraccano a Lampedusa, ci avvertono come le linee tracciate siano illusorie, e proprio per questo insistiamo nell’evocarle e rafforzarne la potenza superstiziosa. Bisogna fermare l’invasore, spedirlo in altri luoghi, fermarlo sulle coste di partenza, pattugliare tutta la costa africana, cannoneggiare le zattere. Da Facebook ai commentatori dei grandi giornali e network, l’impiegato modello e il giornalista affermato condividono la necessità della difesa. La paura non consente cedimenti emotivi, e pur se muoiono centinaia di disperati nel tentativo di raggiungere l’Italia, si versa un’effimera lacrima e poi, si rialza immediatamente la barriera. Il terrone e il polentone difendono lo spazio Italia solamente per poter tranquillamente continuare a disprezzarsi senza esser disturbati. Il campanilismo, le tradizioni dei villaggi, dei comuni, grattata via la patina dello storicismo dei vincenti, ci consegna la vera narrazione della tragedia degli esclusi ridotti al silenzio per secoli, non vogliono ritornare al di fuori delle mura castellane. L’individualismo sorretto dall’egoismo è uno dei tratti identitari dei popoli che hanno abitato e popolano il suolo italico. Terremoti, centrali nucleari che esplodono, afriche sempre più desolate e in preda alle pandemie, debolezza morale dell’occidente non possono che favorire impetuose ondate di egoismo, che si confrontano con la volontà di approdare verso le nostre coste della speranza. Non abbiamo nulla da offrire ai migranti, se non la nostra necessità, scritta sulla pietra dagli studi economici e sociali, di forza lavoro. Ma la rappresentazione plastica dell’invasione territoriale costruita a tavolino per l’elettorato autoctono, non può che sollecitare la repulsione. Al grido di “respingeteli tutti”, “mandateli in Francia e Germania”, “ci prendiamo solo i profughi e non i clandestini”, corrono sulle strade dei social network gli appelli di un plebiscito condiviso da elettori di destra e di sinistra. Non cadiamo nell’errore ideologico di pensare che si tratti semplice razzismo, l’egoismo ti consente di amare la tua cameriera indiana, così pulita e ordinata. L’egoismo collettivo di cui siamo intrisi, non è ripulsa politica né teologica del nero, dell’islamico, del cinese, i loro corpi devono essere a nostra disposizione quando ci conviene, e rigettati quando non servono. Quello che accadrà nel futuro non ci interessa, è sufficiente che non avvenga nel nostro presente. Solo il tempo e l’evolversi dei fenomeni sociali e politici ci diranno se questo egoismo è destinato a espandersi, a radicarsi e divenire elemento costitutivo di un tempo lungo. Intanto qualcosa si può fare, senza attendere nuove generazioni politiche e leader adeguati. Nel piccolo di ogni dove, gruppo, conciliabolo, rete familiare e amicale, bisogna saper superare l’ipocrisia della parola generica per affrontare il fastidio del mettersi in discussione, con rabbia e dolore, mettendo a nudo le nostre inevitabili debolezze. Una rinnovata e adeguata coscienza di se, della donna e dell’uomo italiani, delle buone cose che certamente possiamo mantenere e alimentare, e di ciò che di orribile ancora ci portiamo nelle nostre intimità. Non è vero che sia impossibile ricominciare a sperare, partendo da se, in relazione con un mondo che non si ferma davanti ai gerani.

 

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