Pride: una festa e una battaglia, ma senza liturgie – settimanale gli Altri
di Aurelio Mancuso
Inesorabile come l’8 marzo, meno impegnativa del 1 maggio, destabilizzante come le feste di papà e mammà, è giunta la stagione dei Pride. Il 28 giugno 1969 un manipolo di travestite e transessuali diede del filo da torcere alla polizia allo Stonewall Inn sulla 53° Christopher Street di New York, che per l’ennesima volta irrompeva nei locali gay. Nessun omosessuale in giacca e cravatta era presente, alcuna scintilla di rivendicazione politica classica ha provocato l’ira delle frequentatrici e frequentatori di quel bar, solo la stanchezza e l’umiliazione hanno armato queste persone dei loro tacchi volati contro gli agenti armati di bastoni e disgusto nei confronti dei “pervertiti”. E lo sfoggio di rossetti, tacchi, vestiti colorati sono l’anima stessa dei Pride, della nostra Liberazione che da quel piccolo locale si espansa in quarantaquattro anni e ha travolto prima l’Occidente e ora tutto il mondo, i pregiudizi plurimillenari. In soli quattro decenni la gran parte degli stati degli USA hanno leggi sul matrimonio egualitario o sulle unioni civili, così come il Canada, alcuni paesi dell’America Latina, la gran parte dell’Unione Europea, e così via. continua a leggere E quei colori un po’ sciolti nella baruffa, nelle successive rivolte, hanno permesso a milioni di gay, lesbiche, trans di emergere dalla clandestinità, di poter ipotizzare inediti percorsi individuali e di coppia. La cosa più potente che ci hanno regalato quelle avanguardie queer è il Pride, la giornata del 28 giugno (che ormai si è dilatata in tutto il mese) dell’orgoglio di aver avuto il coraggio di emergere dal buio. Il messaggio è semplice è attiene tutto alla felicità, nel senso più americano del termine, quel sentimento personale e culturale che impone a chi vuole l’ordine eterosessista la necessità di misurarsi con il pansessismo, le differenti tonalità dell’arcobaleno dell’autodeterminazione. I Pride sono molto cambiati negli anni, dalle prime timide manifestazioni degli anni ’70 alle masse sterminate che ora sfilano nelle capitali di tutto il mondo libero, circa 200 milioni di omosessuali, trans, etero. Feste, grandi kermesse, coinvolgimento delle città, dei loro quartieri, delle reti commerciali, artistiche, intellettuali, questo sono diventati i Pride da Tel Aviv a San Paolo. Con pazienza, disordine, e molta fantasia a cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000, i movimenti lgbt hanno conquistato una tale capacità attrattiva nei confronti delle società in cui operano, mettendo a frutto l’indubbia predominanza nella cultura pop nata e esplosa dai quartieri ultimi di New York e Londra, per poi tracimare nelle radio, nelle discoteche, negli atelier, nella tecnologia. I Pride sono per loro stessa evoluzione un fenomeno in mutamento continuo, dove la rappresentazione di noi stesse e stessi, non può fissarsi nella liturgia. Così ogni Pride è differente all’altro pur riconoscendosi nel Rainbow lgbti, per lo più influenzati e contaminati da un carattere sempre più popolare, diffuso, che accoglie e mette in relazione identità molteplici, dai gruppi sportivi ai vigili urbani gay, dalle reti femministe ai migranti, dagli enormi carri commerciali, ai gay credenti. Insomma il Pride attraversa il nostro presente incerto e precario, cercando di far esprimere tante culture, generi, età, orientamenti sessuali. Facendo tesoro di ciò che avviene al di fuori, anche gli italiani possono prendere coraggio e aprirsi a sperimentazioni e novità. In qualche caso sta avvenendo, ma permane un’arretratezza evidente. Tutta la generosità e la straordinaria partecipazione di giovani e ragazze ai nostri Pride non riescono a nascondere che siamo rimasti ancorati a un modello nostrano che preferisce il rassicurante schema di manifestazione un po’ rave Street con innesti di corteo politico. La stessa organizzazione dei Pride è sempre molto incerta, mai seriamente programmata (da qui la drammatica mancanza di fondi per allestire davvero una bella parata), si diffonde (quest’anno ben dieci città saranno percorse da Pride), ma non si qualifica, non attecchisce come iniziativa che coinvolge tutte le esperienze disponibili. E’ probabile che se non si è ancora deciso ad adottare strumenti organizzativi e commerciali ben collaudati in giro per l’Europa, lo si debba anche per il prevalere, anche dentro il movimento lgbt, della sindrome da difesa del campanile. Sarebbe però ingiusto non rammentare che queste dieci manifestazioni, come tante altre iniziative, si svolgono grazie a una rete di volontari delle associazioni, che si accolla fatiche e responsabilità enormi. Ciò che manca non è l’abnegazione, è una visione politica nazionale, di cui proprio ora si avrebbe tanto bisogno, per dare forza alle nostre rivendicazioni. I Pride non possono risolvere tutto, né da soli spingere sulle Istituzioni per ottenere diritti, anche perché la pusillanime politica italiana, dopo vent’anni d’ininterrotti Pride nazionali, continua a parlare con la volgarità e ignoranza di una giornata così importante per milioni di persone. Non bisogna demoralizzarsi, adagiarsi, ritualizzarsi, così i nostri Pride potranno intercettare nuove energie e modalità. I gay tutto possono essere, meno che dei rivoluzionari in pantofole.
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